Lezione

Fossoli: il campo nazionale della deportazione razziale e politica dall’Italia.

Sorse piuttosto velocemente su un terreno paludoso a circa sei chilometri da Carpi, in provincia di Modena, più specificamente su due aree contigue: via Remesina e via Grilli.

Venne istituito dal ministero della Guerra del Regno d’Italia nel luglio 1942 e nominato “Campo prigionieri di guerra n. 73” come centro di detenzione dei soldati dell’esercito britannico catturati in Africa settentrionale.

Originariamente attrezzato per ospitare 3.000 prigionieri militari, assolse questo compito fino all’armistizio dell’8 settembre 1943 quando, dopo l’occupazione del campo da parte dei soldati tedeschi, i militari britannici internati furono trasferiti in Germania.

Il campo divenne quindi dalla fine di settembre 1943 destinazione transitoria di soldati italiani che non aderirono alla RSI e degli ebrei italiani e stranieri catturati, arrestati e imprigionati in numero sempre crescente.
La prefettura di Modena chiese ufficialmente il 2 dicembre 1943 comune di Carpi di attrezzare il campo per il concentramento di ebrei, ma sarà il 5 dicembre che il campo assumerà la sua funzione decisiva, divenendo “Campo di concentramento per ebrei”. Quello stesso giorno arrivarono i primi 70 ebrei e a fine mese le presenze raggiunsero le 827 unità. La sorveglianza dei prigionieri  spettava alla polizia politica della RSI, poi il 15 marzo 1944, il controllo della RSI venne limitato ai confini del campo vecchio, il quale rimase adibito all’internamento di antifascisti, giovani renitenti alla leva di Salò, partigiani, persone alleate dei perseguitati; mentre i tedeschi si riservarono la gestione diretta del campo nuovo, il quale diventò Polizei-und Durchgangslager (campo di polizia e di transito tedesco per le deportazioni). Il campo nuovo, diretto ufficialmente da Karl Tito affiancato da una decina di SS, era diviso in
tre settori : un settore di vigilanza, uno per gli ebrei e uno per gli oppositori politici. Si è calcolato che da Fossoli, dal 19 febbraio al 1 agosto 1944, partirono verso i lager 2.445 ebrei e 2.480 politici.

I circa 5.000 internati politici e razziali che passarono da Fossoli ebbero come destinazioni i campi di Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Flossenburg e Ravensbrück: dei dodici convogli che si formarono con gli internati di Fossoli, sul primo diretto ad  Auschwitz (il 22 febbraio 1944) viaggiava anche Primo Levi che rievoca la sua breve esperienza a Fossoli nelle prime pagine di “Se questo e un uomo” e nella poesia “Tramonto a Fossoli”. Nel campo furono internati anche gli ebrei classificati come “misti” e i coniugi di matrimonio misto; tuttavia essi non partirono con tutti gli altri ebrei, ma rimasero “in attesa ” fino alla composizione dell’ultimo convoglio che partì il 2 agosto 1944.
Tra il 1945  e il 1947 è campo per “indesiderabili”, ovvero un centro di raccolta per profughi stranieri.
Dopo la fine della guerra il Campo è utilizzato a scopo civile.

Fossoli dunque ha rappresentato un punto di sosta e transito per migliaia di uomini, donne e bambini prima di giungere ad un’ignota (allora) destinazione;transito non significa semplice passaggio ma la tragedia di vivere nel terrore la lontananza dai familiari, l’abbandono della quotidianità, la precarietà delle baracche, la convivenza in cameroni in cui ci si sentiva stretti, soffocati, privati della propria intimità, sprovvisti del minimo materiale occorrente per vivere, la fame, il freddo, lo stato di estrema povertà.

Il settore ebraico era costituito da 10 baracche della capienza ognuna di 250 persone, mentre nel settore dei politici vi erano 7 baracche capaci di 320 persone ognuna.
Il 22 giugno 1944 viene barbaramente assassinato con un colpo alla nuca Poldo Gasparotto, esponente del C. L. N. lombardo, e che anche dal campo continuava ad avere contatti con i partigiani e con ufficiali alleati paracadutati nella zona per una possibile eventuale liberazione del campo. Il 12 luglio 1944 vengono fucilati nel poligono di Cibeno, vicino a Carpi, 67 prigionieri, quale rappresaglia per la morte di sette soldati tedeschi per mano dei GAP di Genova.
Ai primi di agosto 1944 il campo viene sgomberato e chiuso; il tutto è trasferito nel campo di Gries, a Bolzano. Fossoli rimase però aperto come centro di raccolta di manodopera da trasportare in Germania.

La strage al poligono del Cibeno

La mattina del 12 luglio del 1944 per ordine della Gestapo sono prelevati dal campo di concentramento di Fossoli 69 internati politici, condotti al poligono di tiro di Cibeno per essere fucilati. Sono uomini con diverse esperienze e di età differenti, provenienti da varie regioni dell’Italia. Tutti sono stati rinchiusi a Fossoli perché oppositori del nazifascismo. La sera precedente, dopo l’appello, 71 internati sono chiamati e avvisati di prepararsi alla partenza per la Germania. Dall’elenco sarà escluso Bernardo Carenino, mentre Teresio Olivelli riuscirà a nascondersi all’interno del campo.

All’alba del 12 luglio, in tre riprese i 69 prigionieri sono caricati su camion e condotti al poligono di tiro distante pochi chilometri dal Campo. Vengono fatti allineare ai bordi di una fossa, che alcuni internati ebrei sono stati costretti a scavare il giorno prima, e ascoltano la sentenza: condanna a morte come rappresaglia per un attentato a Genova contro militari tedeschi. Si rivela inutile anche l’intervento del vescovo di Carpi Vigilio Dalla Zuanna accorso sul luogo e la condanna a morte viene eseguita. Solo due internati del secondo gruppo, Mario Fasoli e Eugenio Jemina, riescono a fuggire e a salvarsi nascosti dal movimento partigiano. Il 17 e il 18 maggio 1945, a meno di un mese dalla liberazione, ha luogo la riesumazione e il riconoscimento delle 67 vittime.

Dopo la guerra

Tra il 1945 e il 1947 è campo per “indesiderabili”, ovvero un centro di raccolta per profughi stranieri. Dopo la fine della guerra il Campo è utilizzato a scopo civile. L’ultima fase di occupazione del Campo Nuovo (1954-1970) è quella dei profughi giuliano-dalmati: poco più di un centinaio di famiglie di lingua e cultura italiana che hanno abbandonato le loro terre assegnate alla Jugoslavia in seguito ai trattati di pace dopo la seconda guerra mondiale. Il sito viene di nuovo ristrutturato e rimaneggiato. Nel 1970, cambiati tempi e le esigenze di vita, i profughi dal campo si trasferiscono in città. Il visitatore di oggi vede quanto resta di quest’ultima fase di occupazione, dopo oltre trent’anni di degrado.

A Carpi, nel Castello dei Pio, per ricordare la memoria di tutti i deportati, è stato allestito nel 1973 il  “Museo monumento al deportato politico e razziale nei campi di sterminio nazisti”, su progetto di Lodovico Barbiano di Belgiojoso, che fu internato a Fossoli dall’aprile al luglio 1944.

Materiali

Qui trovi alcuni materiali per approfondire il tema:
IL CAMPO DI FOSSOLI

Testimonianze scritte di Primo Levi

Il tramonto di Fossoli

Io so cosa vuol dire non tornare.
A traverso il filo spinato
Ho visto il sole scendere e morire;
Ho sentito lacerarmi la carne
Le parole del vecchio poeta:
«Possono i soli cadere e tornare:
A noi, quando la breve luce è spenta,
Una notte infinita è da dormire».
7 febbraio 1946

Primo Levi, dalla raccolta Ad ora incerta, Garzanti, 1984.

A Fossoli

Come ebreo, venni inviato a Fossoli, presso Modena, dove un vasto campo di internamento, già destinato ai prigionieri di guerra inglesi e americani, andava raccogliendo gli appartenenti alle numerose categorie di persone non gradite al neonato governo fascista repubblicano.
Al momento del mio arrivo, e cioè alla fine del gennaio 1944, gli ebrei italiani nel campo erano centocinquanta circa, ma entro poche settimane il loro numero giunse a oltre seicento. Si trattava per lo più di intere famiglie, catturate dai fascisti o dai nazisti per loro imprudenza, o in seguito a delazione.
Alcuni pochi si erano consegnati spontaneamente, o perché ridotti alla disperazione dalla vita randagia, o perché privi di mezzi, o per non separarsi da un congiunto catturato, o anche, assurdamente, per «mettersi in ordine con la legge». V’erano inoltre un centinaio di militari jugoslavi internati, e alcuni altri stranieri considerati politicamente sospetti.

L’arrivo di un piccolo reparto di SS tedesche avrebbe dovuto far dubitare anche gli ottimisti; si riuscì tuttavia a interpretare variamente questa novità, senza trarne la più ovvia delle conseguenze, in modo che, nonostante tutto, l’annuncio della deportazione trovò gli animi impreparati. Il giorno 20 febbraio i tedeschi avevano ispezionato il campo con cura, avevano fatte pubbliche e vivaci rimostranze al commissario italiano per la difettosa organizzazione del servizio di cucina e per lo scarso quantitativo della legna distribuita per il riscaldamento; avevano perfino detto che presto un’infermeria avrebbe dovuto entrare in efficienza . Ma il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati.

Soltanto una minoranza di ingenui e di illusi si ostinò nella speranza: noi avevamo parlato a lungo coi profughi polacchi e croati, e sapevamo che cosa voleva dire partire. Nei riguardi dei condannati a morte, la tradizione prescrive un austero cerimoniale, atto a mettere in evidenza come ogni passione e ogni collera siano ormai spente, e come l’atto di giustizia non rappresenti che un triste dovere verso la società, tale da potere accompagnarsi a pietà verso la vittima da parte dello stesso giustiziere. Si evita perciò al condannato ogni cura estrane, gli si concede la solitudine, e, ove lo desideri, ogni conforto spirituale, si procura insomma che egli non senta intorno a sé l’odio o l’arbitrio, ma la necessità e la giustizia, e, insieme con la punizione, il perdono. Ma a noi questo non fu concesso, perché eravamo troppi, e il tempo era poco, e poi, finalmente, di che cosa avremmo dovuto pentirci, e di che cosa venir perdonati? Il commissario italiano dispose dunque che tutti i servizi continuassero a funzionare fino all’annunzio definitivo; la cucina rimase perciò in efficienza, le corvées di pulizia lavorarono come di consueto, e perfino i maestri e i professori della piccola scuola tennero lezione a sera, come ogni giorno. Ma ai bambini quella sera non fu assegnato compito.

E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare? Nella baracca abitava il vecchio Gattegno, con la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore operose. Tutti gli uomini erano falegnami; venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portati con sé gli strumenti del mestiere, e la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto; e quando tutto fu pronto, le focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta notte pregarono e piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato.

L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata follia. Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case. Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria. Con la assurda precisione a cui avremmo più tardi dovuto abituarci, i tedeschi fecero l’appello. Alla fine, – Wieviel Stück? – domandò il maresciallo; e il caporale salutò di scatto, e rispose che i «pezzi» erano seicentocinquanta, e che tutto era in ordine; allora ci caricarono sui torpedoni e ci portarono alla stazione di Carpi. Qui ci at tendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi: e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, né nel corpo né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?
(da Se questo è un uomo, prima edizione: De Silva, 1947)