Lezione

Il complesso concentrazionario di Auschwitz

A cura di Michele Andreola, guida dell’ex complesso concentrazionario di Auschwitz.

Materiali

Qui trovi alcuni materiali per approfondire il tema:
IL COMPLESSO CONCENTRAZIONARIO DI AUSCHWITZ

Auschwitz fu il più grande campo realizzato dai tedeschi. Era, in effettti, un insieme di più campi, tra i quali uno di concentramento, uno di sterminio e uno per ospitare i prigionieri destinati ai lavori forzati.

Si trovava nei pressi della città di Oswiecim (distante circa 70 Km da Cracovia), nell’Alta Slesia Orientale, un territorio che era stato annesso al Terzo Reich nel 1939.
Auschwitz I era il campo principale e il primo ad essere realizzato a Oswiecim.
Auschwitz II (Birkenau) era invece il centro di sterminio del complesso. I convogli ferroviari arrivavano quasi quotidianamente, carichi di Ebrei provenienti da ogni paese europeo occupato dai Tedeschi.
Auschwitz III, anche chiamato Buna o Monowitz, venne realizzato a Monowice per rifornire di manodopera le fabbriche vicine, tra le quali c’era anche la I.G. Farben.

Tra il 1942 e il 1944, i dirigenti delle SS di Auschwitz realizzarono 39 campi minori o sottocampi. Alcuni di essi vennero costruiti all’interno della zona individuata ufficialmente come “Zona di sviluppo”, inclusi Budy, Rajsko, Tschechowitz, Harmense e Babitz. Altri, come Blechhammer, Gleiwitz, Althammer, Fürstengrube, Laurahuette e Eintrachthuette si trovavano invece nell’Alta Slesia, a nord e a ovest del fiume Vistola. Altri sottocampi si trovavano in Moravia, come Fruedental e Bruenn (Brno). In genere, i campi satellite destinati alla produzione e all’elaborazione di prodotti agricoli erano posti sotto l’amministrazione di Auschwitz-Birkenau, mentre i sottocampi dove i prigionieri erano assegnati alla produzione industriale e di armamenti, o all’industria estrattiva (per esempio le miniere di carbone, o le cave di pietra) erano amministrati da Auschwitz-Monowitz.
Dopo il novembre del 1943, questa divisione delle responsabilità venne formalizzata.

I detenuti di Auschwitz dovevano lavorare in grandi aziende agricole, inclusa quella sperimentale di Rajsko; erano anche obbligati a lavorare nelle miniere di carbone, nelle cave, nelle imprese ittiche e soprattutto nelle fabbriche di armi, come la German Equipment Works, creata nel 1941 e di proprietà delle SS. I prigionieri dovevano poi sottoporsi a una periodica selezione e se le SS li ritenevano troppo deboli o malati per continuare a lavorare, venivano trasferiti a Auschwitz-Birkenau e lì venivano uccisi.

A questo link (United States Holocaust Memorial Museum) un esaustivo articolo comprensivo di mappe:

https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/auschwitz


Rubino Romeo Salmonì racconta così il suo arrivo ad Auschwitz
(tratto da Rubino Romeo Salmonì, HO SCONFITTO HITLER. Appunti, note e frammenti di memoria di un sopravvissuto ad Auschwitz-Birkenau. – Edito dalla Provincia di Roma)

Il treno rallenta.
Stiamo nell’apatia, la fame, il freddo non ci rendiamo conto di quello che sta accadendo e di quello che accadrà. Con lo sguardo ci interroghiamo: «Dove siamo? Siamo arrivati? Che cosa è quel fumo che esce dal camino in fondo al campo? ».

Molte volte basta un nome o un fatto per ricordare.

Mi ricordo sentendo il cognome Nola di un padre e due figli che erano nel mio trasporto: Sergio e Riccardo, il più piccolo. Sergio era sposato e avendo lasciato la moglie incinta prossima a partorire si disperava, non era attento e prendeva tante bastonate tra il dolore del padre e del fratello. Persi le loro tracce non li ho più rivisti; trasferiti? O forse selezionati…

Il treno arriva nello spiazzo, la cosiddetta Rampa. Si aprono gli sportelli e le grida e le bastonate ci fanno scendere più rapidamente; gli addetti a tale scopo, anche essi ebrei deportati, si mostrano zelanti lavoratori, colpendo ripetutamente chi ritarda a scendere. Mi guardo intorno frastornato, sbigottito, il cielo color piombo sembrava che ci volesse schiacciare, una fila interminabile di oggetti sparsi in terra (valigie e pacchi e una interminabile filare di fili ad alta tensione). Ci sono confusione e grida, mi sveglio dalla contemplazione per una tremenda bastonata, la prima di una lunga serie…

Venivamo scaraventati fuori dai vagoni bestiame con sadica malvagità. Senza alcuna pietà per le donne con il piccolo al seno, molte volte morto durante il viaggio. I vecchi e i malati, appena si rialzavano, cadevano in malo modo.

Sono stordito e atterrito da quel fumo e dal puzzo di carne bruciata; sento un forte urto alle mie spalle.

Ci incolonniamo per cinque, uomini da una parte, donne dall’altra, per la distanza che esiste dalla Rampa alla disinfezione. È un formicolio di individui tutti uguali, scheletri viventi che nulla hanno di umano.

Aguzzo lo sguardo, no! Non mi sbaglio quelle figure appese alla rete ad alta tensione non sono stracci, ma gente che ha avuto il coraggio di finire quell’inutile stillicidio di umiliazione, fame, terrore, angoscia; c’è da invidiarli per tanto coraggio!

Addio speranza.

In fondo a questo grande viale tra due file di reticolati ad alta tensione si scorgono figure in divisa con registri e carte. Mano a mano che ci avviciniamo si riconoscono le lugubri divise SS; fra essi c’è il maledetto dottor Mengele, detto “l’angelo della morte”, il cui nome diventerà celebre nel mondo per i suoi inumani esperimenti, fatti sui corpi dei deportati e delle deportate. Le file si snelliscono, egli, con un semplice gesto del dito, decreta la tua sorte: dobbiamo passare davanti a lui, uno alla volta; destra campi di lavoro, sinistra crematorio. È così che separa padri e figli, fratelli e fratelli.

Ci sono scene di panico, sedate da una moltitudine di bastonate sulla testa; me ne arriva anche a me, ma è benedetta: mi mandano ai campi di lavoro.

Ecco il mio ingresso ufficiale nel pianeta Auschwitz; intanto le fiamme salgono alte dalle ciminiere dei crematori.

Arriviamo a un altro settore del campo ed è con grande angoscia che, anche se sfigurati nel fisico e nella fisionomia, scorgo qualche conoscente catturato a Roma prima di me. Vedo nei loro sguardi la compassione: sapevano che cosa ci aspettava…

Sono deluso e contrariato: credevo di trovare i miei cari fratelli, ma visto come erano ridotti gli altri forse è stato meglio! Certo, a vederli in quelle condizioni, non so come sarebbe stato l’incontro.

Sempre con bastonate in testa ci avviamo verso il blocco disinfezione e vestiario: ci fanno spogliare e ci depilano; ovunque ci sono capelli o peli. La macchinetta del barbiere, anziché tagliare, strappa capelli e peli con immenso dolore per chi si rade e sanguina. Gli addetti alle docce e i barbieri sono gente presa nelle galere, assassini, ladri, uxoricidi e qualche altra qualifica; perciò per tagliare i capelli ti fanno abbassare la testa con un poderoso pugno alla nuca: è più sbrigativo…

Rimpiango il carcere Regina Coeli, almeno ero in Italia, a Roma. Non sapevo di amarla tanto e che in seguito mi sarei arrovellato di grande nostalgia per la mia bella Roma…

Ci fanno fare la doccia: fredda, calda, fredda; ci spargono in testa un liquido puzzolente; sentiamo il cuoio capelluto arroventarsi e altre parti del corpo sanguinare; c’è qualcuno che piange. Un deportato che all’arrivo era risultato sano si scopre con il cinto dell’ernia e viene rimandato tra i futuri gassati.

Questa è Auschwitz.

Ero riuscito a conservare due lettere di mamma nelle scarpe; riuscii a salvarle anche quando mi cambiarono le scarpe con gli zoccoli di legno.

[C’era scritto]: «Ti aspetterò», come se fossi partito per il militare e dovessi ritornare presto. Ecco il contenuto angoscioso delle lettere; povera mamma, quale dolore avrà provato: tre figli deportati e senza alcuna notizia sulla loro sorte! Stracciai quelle lettere che mi davano un dolore atroce leggendole!

Forse sarebbe stato meglio finire quel giorno, anziché passare quel calvario! Dal mio [futuro] posto di lavoro avrei potuto vedere quelle povere giovinette, vestite di pochi stracci, trasportare delle grosse pietre; non è un lavoro necessario, ma di logorio fisico

Mettono le pietre in un posto, dopo le riprendono e le rimettono nel mucchio di prima, finché il fisico cede ed è la fine. La sera un carretto nero le preleva per il crematorio: la sera stessa usciranno dalla ciminiera del forno, in un fumo che sale verso il cielo. Forse non era fumo, ma le anime di povere giovinette vergini che prendevano posto in Paradiso, dopo tanto inferno in terra….


La testimonianza di Goti Bauer
(Agata Herskovitz il suo nome di nascita)

Nata a Berehovo (Cecoslovacchia) il 29 luglio 1924,si trasferisce con la famiglia a Fiume e vi risiede fino al 1944. Arrestata a Cremenaga (Va) dopo aver tentato la fuga in Svizzera, il 2 maggio 1944, viene detenuta nelle carceri di Varese, Como, Milano e poi nel campo di transito di Fossoli. Il 16 maggio 1944 viene deportata ad Auschwitz-Birkenau. Liberata a Theresienstadt il 9 maggio 1945 è l’unica sopravvissuta della famiglia d’origine.

“Memoria”
regia di Ruggero Gabbai.
Autori: Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto
Produzione: Forma International, Italia, 1997.
Durata: 90′ (col). Sottotitoli in inglese.

“Memoria” è un documento storico assolutamente unico, che raccoglie le testimonianze dei deportati ebrei italiani ad Auschwitz. 90 interviste, realizzate da Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto negli anni ’90, agli ultimi sopravvissuti della deportazione. Un racconto dalla viva voce di chi ha vissuto tutte le fasi della Shoah italiana; il ricordo di chi ha provato sulla propria persona la follia della storia e ne porterà il segno per sempre